Domande e Risposte sulla Depressione

Domande e Risposte sulla Depressione

DOMANDE E RISPOSTE PER CHI SOFFRE DI DEPRESSIONE E PER I FAMILIARI

Cosa dire?
“La depressione è una malattia curabile… è però necessario rivolgersi ad uno specialista” “Anche se adesso ti sembra un tunnel senza via di uscita, il rimedio c’è e, con le cure adeguate, se ne può uscire nel giro di poche settimane” “Non puoi puntare sulla volontà per superare questa fase: è necessario un aiuto esterno che ti metta in condizioni di recuperare le tue energie vitali” “Non devi sentirti in colpa se non riesci a fare quello che fai di solito: per adesso è così, ma è sicuro che, quando la depressione sarà scomparsa, tornerai ad essere quello di prima” “È solo una situazione transitoria: con le cure adeguate questa condizione è destinata a migliorare fino a scomparire del tutto”

Cosa non dire?
“Cerca di tirarti su… in fondo tutti hanno dei problemi… bisogna rimboccarsi le maniche” “Devi sforzarti, devi mettercela tutta… con un po’ di buona volontà, ce la puoi fare” “ È solo un problema di pigrizia… in fondo ti fa comodo stare lì e non fare nulla” “Sei tu che non vuoi fare, non vuoi provare, non vuoi collaborare” “Non c’è nessuno che può aiutarti… devi farcela da solo” “Non c’è bisogno di medici né di medicine… è solo un problema di buona volontà” “Sei un egoista, pensi solo a te stesso, non pensi a noi che stiamo male nel vederti stare così”
Quelle elencate sono frasi esemplificative, le cui linee guida possono essere così riassun- te: è necessario evitare di far leva sulla “forza di volontà” e sulla “colpevolizzazione” del paziente depresso che, a causa della malattia, è già in preda a sensi di colpa e privo di quella energia vitale (che è, appunto, quella che noi chiamiamo volontà) da poter usare a piacimento. I familiari non devono stigmatizzare la sofferenza del congiunto come incapacità ad affrontare la vita, non devono accentuare il suo isolamento nè aumentare il suo carico d’inadeguatezza e di colpa. Tornando alla metafora dei ponti da costruire allo scopo di mettere in contatto solitudine e sofferenza del paziente con quelle dei familiari, è possibile individuare nell’empatia il materiale per costruirli. L’empatia è la capacità di mettersi nei panni dell’altro, di guardare con gli occhi dell’altro, ascoltare con l’orecchio dell’altro e sentire con il cuore dell’altro e appare come l’unico conduttore di energia positiva tra i due poli – paziente e familiari – della sofferenza psichica. Un comportamento empatico è soprattutto disponibilità all’ascolto dell’altro. Senza l’empatia ogni comportamento dei familiari rischia d’essere inutile, se non dannoso. Pretendere reazioni, incitare all’attività, aggredire o scuotere possono solo peggiorare la situazione. Essere genitori, amici o fidanzati non è semplice e lo è ancor meno quando è presente la ma- lattia. Soltanto la capacità empatica consente di stare accanto al paziente e accompagnarlo nel percorso che gli consentirà di uscire da quel tunnel oscuro dal quale non sembra esserci uscita.

Quanto conta l’ambiente relazionale?
L’inizio di una psicoterapia attiva reazioni emotive intense nell’ambiente relazionale e in particolare all’interno della famiglia: chi chiede apertamente se può fare qualcosa, chi fa valere il proprio potere, chi risulta invadente senza volerlo, chi invece pensa sia suo diritto intervenire e poco importa come. Questo capitolo si sofferma sulla relazione tra il paziente che inizia una psicoterapia ed i suoi familiari.

Il cliente, il terapeuta e la segretezza
La relazione psicoterapeutica è uno spazio privato in cui il paziente porta il proprio di- sagio e i personaggi della propria vicenda personale, alla ricerca di nuovi significati. Il terapeuta offre una relazione nuova ed un ambiente protetto dalle regole del setting e dal segreto professionale.
Al telefono: “Dott./Dott.ssa Z”? “Si, buongiorno, la Signora…?” “Buongiorno… sono la mamma di Dario (un paziente di 25 anni), è venuto oggi? Sa, non mi dice mai nulla… volevo sapere come sta andando la terapia… si, insomma, come sta…?”
La richiesta della mamma di Dario è comprensibile ma, se il paziente è adulto, nulla di quanto viene detto in seduta può esser rivelato. L’unica possibilità è riportare la richiesta all’interno della seduta con il paziente e concordare con lui la risposta. Compito del terapeuta è sostenere il paziente nel confronto con il suo mondo interno, ma anche con l’ambiente esterno e le sue richieste. L’alleanza tra paziente e terapeuta non significa essere “contro” nessuno dei suoi familia- ri, amici o conoscenti. È spesso difficile evidenziare che la relazione esclusiva non vuole essere escludente. I genitori, il marito, la fidanzata o il miglior amico non possono avere dal terapeuta informazioni su quanto avviene in seduta semplicemente per il rispetto di un fondamentale patto di segretezza stretto con il paziente.

Cosa possono fare i familiari?
Stare vicino Chi decide di iniziare una psicoterapia dichiara a se stesso e agli altri, in modo più o meno esplicito e diretto, il desiderio di prendersi cura di sé per stare meglio e l’ideale cui dovrebbero tendere i familiari è “stare a fianco” e rinforzarlo nel percorso intrapreso. Le difficoltà sono evidenti, perché si tratta di un ruolo nuovo, diverso da quello “di partenza”. Moglie, padre, fratello, amica, fidanzato di solito interagiscono con la persona che si cura da una posizione relazionale connotata affettivamente, fonte di doveri e, talvolta, di diritti specifici: può, quindi, essere difficile tenere presente i loro limiti ed evitare comportamenti invasivi nella relazione tra il paziente e il suo terapeuta.

E’ importante che i familiari si informino?
Acquisire informazioni, tramite pubblicazioni o siti internet qualificati, sulla psicoterapia, su cos’è, come si svolge, quali sono gli scopi, i tempi, “le regole”, è senza dubbio impor tante per i familiari ed è utile per individuare i comportamenti più corretti da adottare. Un modo relativamente più recente per informarsi è frequentare familiari di pazienti con patologie simili, per confrontarsi direttamente sulle difficoltà incontrate e mettere in co- mune informazioni e risorse.Prendersi cura di sé Se la sofferenza del congiunto occupa un posto eccessivo nella propria vita, prenderne consapevolezza può provocare un cambiamento e instaurare un circuito benefico.

La cura è contagiosa
A volte la sofferenza del proprio caro può riverberarsi profondamente sul vissuto di chi gli sta vicino e raggiungere corde emotive profonde, scoprendo un disagio personale che va accolto ed elaborato. In tali casi è consigliabile richiedere aiuto per sé e prendersi cura della propria sofferenza con un ciclo di colloqui di sostegno psicologico oppure con una psicoterapia individuale.

Cosa non devono fare i familiari?
La negazione della sofferenza Se una persona intraprende una psicoterapia vuol dire che riconosce la presenza di un disagio di cui intende prendersi cura. Perché negare tale disagio?
In seduta: “Mia moglie dice che sono tutte palle quelle che ho… ma io sto male. So che questa situazione è penosa anche per lei… ma perché non mi crede?
Negare la sofferenza del proprio caro è una difesa comprensibile, ma non giustificabile. Negare il malessere (“Tu stai bene!”) impedisce alla persona di trovare un punto fermo da cui partire per la ricerca autonoma e responsabile di un sollievo e di un significato. Tale atteggiamento lascia la persona sola e confusa e rende difficile la richiesta d’aiuto.

La svalutazione della cura
Chi intraprende una psicoterapia può decidere di comunicarlo o meno. Nel caso in cui scelga di farlo, le reazioni possono essere le più svariate: chi chiederà informazioni su cos’è la psicoterapia in generale; chi vorrà sapere chi è il terapeuta scelto e che formazio- ne ha; chi accetterà con curiosità i racconti di spaccati di seduta; chi ne farà con lui argo- mento di conversazione; chi ascolterà senza entrare nel merito, avvertendo di essere reso partecipe di una relazione particolare e privata su cui non gli vengono richiesti commenti. Gli esempi potrebbero continuare, ma una reazione in particolare merita un approfondi- mento: la svalutazione della cura. Denigrare il percorso psicoterapeutico con critiche e giudizi generali che ne mettono in dubbio la serietà e ne svalutano l’efficacia sminuisce la portata emotiva e spesso affettiva della comunicazione. Svalutare la psicoterapia o il terapeuta svaluta il paziente, la sua scelta e prende le distanze dalla sua sofferenza. Non è necessario, naturalmente, che tutti credano nell’utilità di tale percorso, ma tale posizione va dichiarata in modo esplicito ed affettivo come semplice parere personale con cui il paziente può confrontarsi, sentendosi comunque accolto.
In seduta: “Il mio fidanzato continua a dirmi che non capisce perché vengo da lei a buttare via i soldi…lui dice che se andassi in palestra, visto che ho già pagato l’abbonamento e non ci vado mai o se facessimo un viaggio, starei meglio comunque e mi divertirei di più…in realtà mi dice anche che mi trova un po’ meglio ultimamente… sarà anche perché, da quando vengo qui, è capitato meno di frequente di scoppiare in lacrime senza motivo quando siamo insieme o che decida all’ultimo di non uscire perché ho un attacco d’ansia…”
È evidente che la cliente potrebbe trarre giovamento, come ognuno di noi, dallo sport o da un viaggio. Perché, però, svalutare la sua scelta? La psicoterapia non è assimilabile ad uno svago: è un investimento impegnativo e faticoso, a livello emotivo ed economico, scelto per ritrovare il proprio benessere.

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